DAVID MARIA TUROLDO

- cenni biografici
- poesie





CENNI BIOGRAFICI
E' nato a Coderno del Friuli nel 1916.
Ordinato sacerdote, frate dei Servi di Maria, nel 1940; ha partecipato alla Resistenza con il giornale clandestino "L'uomo". Con padre Camillo De Piaz ha dato vita al centro culturale "Corsia dei Servi".
Per circa trent'anni è stato priore e parroco dell'abbazia di S. Egidio a Fontanella, frazione di Sotto il Monte, paese natale di Papa Giovanni XXIII; qui ha diretto il Centro di Studi ecumenici.
E' autore di un numero notevole di opere, prevalentemente di poesia; dall'iniziale "Io non ho mani" (Bompiani 1948), ai successivi "La terra non sarà distrutta" (Garzanti 1951), "Udii una voce" (Mondadori 1952), "Se tu non riappari" (Mondadori 1963). Opere drammaturgiche come "La passione di San Lorenzo" (1978), un film "Gli ultimi" (1962) con la consulenza di Pier Paolo Pasolini.
Tra le opere recenti: "Il sesto angelo" (Oscar Mondadori 1976), "Lo scandalo dello speranza" (Benvenuto 1978), "O sensi miei" (Rizzoli 1990), "Canti ultimi" (Garzanti 1991).
A Milano il 21 novembre 1991 ha ricevuto il premio "Lazzati"; in quell'occasione, l'ultima solenne della sua vita, il cardinale Martini gli ebbe a chiedere scusa delle incomprensioni della Chiesa nel passato, dichiarando la sua una delle "voci profetiche" dell'età contemporanea.
Dopo aver lottato con la malattia David Maria Turoldo si è spento la mattina di giovedì 6 febbraio 1992.
Al termine della messa domenicale del 2 febbraio aveva, però, salutato i fedeli dicendo che "la vita non finisce mai".

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POESIE
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IO NON HO MANI
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l'ufficio di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere custode
della vostra solitudine:
sono salvatore
di ore perdute.


POVERA CHE DORME ENTRO I GIORNALI
C'è una povera in via Ciovasso
che non può più camminare,
e dorme entro i giornali
nessuno di quelli che stanno di sopra
ha tempo di scendere e salutare.

Per lei è di troppo
un po' di scatole per guanciale
e stare nel cuore di Milano.


ITINERARI
Liberata l'anima ritorna
agli angoli delle strade
oggi percorse, a ritrovare i brani.
Lì un gomitolo d'uomo
posato sulle grucce,
e là una donna offriva al suo nato
il petto senza latte.
Nella soffitta d'albergo
una creatura indecifrabile:
dal buio occhi uguali
al cerchio fosforescente d'una sveglia
a segnare ore immobili.
E io a domandare alle pietre agli astri
al silenzio: chi ha veduto Cristo?


DIO NON VIENE ALL'APPUNTAMENTO
Ma quando declina questo
giorno senza tramonto?
All'incontro cercato
nessuno giunge.
E le pietre bevono
Il sangue di questo cuore
Ancora per miracolo vivo.


ASCOLTA IL NOSTRO GRIDO, O GIOBBE
Ma ora a noi avanzano
Solo l'inverno e la notte
E senza scampo sono le nostre vite
In queste città maledette.
La morte siede sugli usci delle case
o con gli zoccoli di cavallo va per le strade
in stridori di migliaia di trombe;
o volteggia trionfante
sul capo in risa di corvi a stormo.
Invece fiorito è il deserto, popolata
di uccelli e di alberi la tua solitudine.
Angeli danzano al canto nuovo.
Il ricordo di un amico
Penso che nessun'altra cosa ci conforti tanto,
quanto il ricordo di un amico,
la gioia della sua confidenza
o l'immenso sollievo di esserti tu confidato a lui
con assoluta tranquillità:
appunto perchè amico.
Conforta il desiderio di rivederlo se lontano,
di evocarlo per sentirlo vicino,
quasi per udire la sua voce
e continuare colloqui mai finiti.


Da "Udii una voce"

Non per me il pulito verso.
Uno scabro sasso la parola
nelle mie mani.
Intanto che gli effetti dissepolti
marciscono come foglie staccate
dalla pianta..
Questi i miei giorni vuoti di pudore,
i miei canti senza note
la verità senza amore.


Parole, inerti macerie,
brandelli d'esistenze
disamorate, panorama
del mio paese
ove neppure il gesto
sacrificale più rompe
la immota somiglianza dei giorni,
né le vesti sante coprono
la nudità degli istinti.

E i poeti non hanno più canti
Non un messaggio di gioia,
nessuno una speranza.


È TEMPO, AMICO
Certo per me, amico, è tempo
di appendere la cetra
in contemplazione
e silenzio.

Il cielo è troppo alto
e vasto
perché risuoni di questi
solitari sospiri.

Tempo è di unire le voci,
di fonderle insieme
e lasciare che la grazia canti
e ci salvi la Bellezza.

Come un tempo cantavano le foreste
tra salmo e salmo
dai maestori cori
e il brillio delle vetrate
e le absidi in fiamme.

E i fiumi battevano le mani
al Suo apparire dalle cupole
lungo i raggi obliqui della sera;
e angeli volavano sulle case
e per le campagne e i deserti
riprendevano a fiorire.

Oppure si udiva fra le pause
scricchiolare la luce nell'orto, quando
pareva che un usignolo cantasse
"Filii et Filiae", a Pasqua.


E NON CHIEDERE NULLA
Ora invece la terra
si fa sempre più orrenda:

il tempo è malato
i fanciulli non giocano più
le ragazze non hanno
più occhi
che splendono a sera.

E anche gli amori
non si cantano più,
le speranze non hanno più voce,
i morti doppiamente morti
al freddo di queste liturgie:

ognuno torna alla sua casa
sempre più solo.

Tempo è di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane,
per reggere alla luce del sole
per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.
E la gente, l'umile gente
abbia ancora chi l'ascolta,
e trovino udienza le preghiere.

E non chiedere nulla.


Da "Ritorniamo ai giorni del rischio", 1985
Siamo composti con brani di morti
uguali a città
rifatte da macerie di secoli.

Allora al comune bivacco eravamo
tutti disperati e volevamo
morire per sentirci più vivi.

Non questo certo era l'augurio!
La nuova parola è stata uccisa
Dal piombo sulle bocche squarciate.

Una mediazione invocavano morendo
tra l'avvenimento grande e la sorte di ognuno,
l'avvento attendevano dell'uomo umile.

Ma noi rimpiangemmo le vecchie catene
come il popolo ambiva nel deserto
l'ossequio al re per le sicure ghiande:

non vogliamo il rischio di essere liberi,
il peso di dover decidere da noi
e l'amore di farci poveri.

Da sotterra urlano i morti
e per le strade vanno
come nell'ora dell'agonia di Cristo.

Per le strade vagano i fratelli
senza casa, liberi
d'ogni ragione d'essere morti.

La notte è simile al giorno
Il bene al male s'eguaglia,
spoglio quale una pianura d'inverno.


Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
ancora qualcuno è nato:
con occhi e mani
e sorride.


Solo parole, o papa:
parole, e di contro
la irreparabile morte
della Parola.
Le chiese, un frastuono
gli uomini sempre
più soli
e inutili.
E il cielo è vuoto:
Dio ancor più che morto
assente!



Per favore, non rubatemi la mia serenità.
E la gioia che nessun tempio
ti contiene,
o nessuna chiesa
t'incatena:
Cristo sparpagliato
per tutta la terra,
Dio vestito di umanità:
Cristo sei nell'ultimo di tutti
come nel più vero tabernacolo:
Cristo dei pubblicani,
delle osterie dei postriboli,
il tuo nome è colui
che-fiorisce-sotto-il-sole.


Da Canti ultimi, Garzanti, 1991
Non so quando spunterà l'alba
non so quando potrò
camminare per le vie del tuo paradiso
non so quando i sensi
finiranno di gemere
e il cuore sopporterà la luce.
E la mente (oh, la mente!)
già ubriaca, sarà
finalmente calma
e lucida:
e potrò vederti in volto
senza arrossire.




Amici, mi sento
un tino bollente
di mosto dopo
felice vendemmia:
in attesa del travaso.
Già potata è la vite
per nuova primavera.






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