DI ACCIUGHE , DI VIA DEL SALE, DI BAGNA CAODA E DELLA NOSTRA STORIA
Nei giorni scorsi ho avuto occasione di partecipare ad alcune iniziative nelle quali si è parlato della Bagna Caoda, sia da un punto di vista culinario, sia come prodotto in qualche misura rappresentativo della cucina povera e comunitaria delle generazioni che ci hanno preceduto, che in poche occasioni poteva uscire da una quotidianità di mera sopravvivenza, e mi è parso giusto ricordare come anche alla mia generazione siano state trasmesse molte immagini forti di una vita che, fortunatamente per tanti aspetti, non c’è più, e tra queste sicuramente alcune immagini che hanno per protagonista l’acciuga.
Appartengo ad una generazione che ha ancora sperimentato l’avventura del fare il pane in casa: una volta la settimana si impastava a mano la farina con acqua calda e lievito, e poi la pasta veniva messa a lievitare nella madia, dove quadruplicava il suo volume e quindi la sera si andava al forno.
Ogni settimana avevamo un turno di un’ora, tutti i mercoledì sera, per la cottura del pane, ed io e mio fratello accompagnavamo mamma, più per la compagnia che per l’aiuto che potevamo dare, portando le fascine ben secche per alimentare la fiamma, che “Miclinot”, il mitico proprietario e conduttore del forno, avrebbe poi inserito nel forno stesso.
Andavamo volentieri, anche perché così mamma ci faceva il pane dolce, grissini intrecciati con spolverata di zucchero in cottura.
I ricordi di questi momenti semplici si intrecciano al ricordo di aneddoti sentiti raccontare, scorci di vita di qualche decennio prima, quando la sobrietà e la semplicità della vita contadina confinavano o addirittura sconfinavano nella povertà, ed in alcuni casi nella miseria, in una dura stagione di guerra e dopoguerra forse troppo velocemente archiviati e rimossi.
Ricordo racconti di pane volutamente reso meno buono di quello che si sarebbe potuto, per non incentivarne il consumo, in famiglie molto numerose, e così tendere a far durare la fornata sino alla settimana seguente, quando ci sarebbe stata la nuova cottura di pane.
Ricordo di racconti di pasti nei quali alla polenta seguiva la polenta, primo secondo e poco spazio a varianti di pregio in cucina.
Polenta oggi, polenta domani, tutti i giorni polenta, ed è qui che entrava in gioco l’acciuga.
Non so quanto di quei racconti si fosse davvero svolto in quei termini, e quanto sia stato invece arricchito con la fantasia, ma mi ricordo di un’acciuga che veniva appesa al soffitto e fatta penzolare in modo che a turno tutti potessero sfregare la fetta di polenta all’acciuga per cercare di dare un po’ sapore nuovo e una sensazione di diversità al solito piatto di polenta.
Qualcuno ha scritto che in quella terra ed in quel contesto finché c’era un’acciuga c’era speranza.
Un modo forse pittoresco per ricordare e narrare di una cultura nella quale la fantasia si metteva in gioco per rendere dignitosa una povertà di vita e di alimentazione.
Ripercorrendo questi ricordi e queste “storie” mi son chiesto tante volte cosa c’entrasse l’acciuga con le terre e le comunità piemontesi; in fondo le nostre acque non erano marine.
Del mito dell’acciuga si narrano tante storie e tante possibili verità, di un cibo venuto al seguito di saraceni, di una merce di scambio povera o ricca a seconda dei casi e del contrabbando del sale.
Di quest’ultima spiegazione ci narra Nico Orengo, un poeta e scrittore cantore delle nostre terre e della nostra cultura, che ci ha regalato una “storia” che affonda le radici nel Sacro Romano Impero, ed nelle “vie del sale” che tanta parte hanno avuto nella storia e nelle storie delle nostre terre, ma anche nella toponomastica e nella articolazione viaria che ci è stata consegnata.
La storia è straordinariamente affascinante e racconta di un tempo nel quale il sale era uno dei principali sistemi di conservazione del cibo (la parola “salario” deriva appunto dalla paga dei soldati romani che era sotto forma di quantità di sale) e costituiva quindi una merce fondamentale e richiestissima.
Racconta di come dopo l’800, quando il Sacro Romano Impero impegnato in uno sforzo unitario e amministrativo importante, fosse riuscito a rendere sicuro il proprio territorio affidandolo alla cura ai diversi feudatari, e come questo avesse ridato slancio ai commerci consentendo all’Europa una prospettiva di crescita dopo secoli di paura, nei quali era stata colpita ed attraversata continuamente da tribù barbare, nella maggior parte dei casi interessate solamente a depredare.
La sicurezza delle vie di comunicazione diventa un vero e proprio motore di sviluppo, una sorta di mini-globalizzazione ante litteram.
La sicurezza militare delle vie di transito, ci viene narrato, aveva però un prezzo, perché richiedeva un presidio del territorio e conseguentemente portava a gabelle non sempre proporzionate e giustificate che si dovevano pagare alle diverse famiglie feudali quando si attraversava il loro territorio.
Frequentemente avvenivano anche scontri militari provocati da sconfinamenti o tributi non pagati.
In questo contesto nasce un commercio parallelo e un vero e proprio contrabbando.
Si parla di secoli fa: epoca in cui il sale veniva prodotto a Salon de Provence, e gravato da altissime tasse doganali. Veniva quindi trasportato in barili e venduto in tutto il nostro territorio.
Si ipotizza che, per nascondere il prezioso carico di sale, si coprissero i barili di oro bianco con un’abbondante strato di acciughe, che pur avendo una funzione strumentale erano comunque poi vendute, conquistando gradualmente sempre un maggiore spazio in una dieta alimentare che era molto povera e poco varia.
Come la storia ci insegna anche le grandi vicende umane a volte iniziano in modo fortuito, ed anche in questo caso strato dopo strato le acciughe hanno incominciato ad avere successo e, complice l’abbassamento dei prezzi del sale, sono piano piano diventate le vere e proprie protagoniste.
La via del sale si snodava dalle coste francesi passando per Sanremo, Oneglia per poi salire a nord fino a superare il col di Nava. Come ci raccontava Nico Orengo, è qui che l’acciuga faceva il suo salto.
Scendeva poi verso Limone Piemonte e si dirigeva verso Ceva, Montezemolo e ancora verso Cuneo fino ad arrivare a Dronero, all’imbocco della Val Maira.
E qui sia apre un altro capitolo di straordinario interesse, di come Dronero sia diventata la capitale e la patria degli acciugai (anciuè, in dialetto piemontese).
Nel lungo periodo freddo, di riposo dal lavoro dei campi, il capofamiglia partiva, andava in Liguria e comperava le acciughe, gli altri componenti della famiglia lo raggiungevano a trattative concluse, con i caruss, caratteristici carretti costruiti in valle, molto leggeri ma robusti e quasi sempre dipinti d’azzurro. Caricavano i barili di acciughe e giravano poi in tutta la regione cercando acquirenti. Sovente si spingevano fino in Lombardia, e in Emilia.
Era un lavoro duro, ogni acciugaio poteva percorrere anche più di trenta chilometri al giorno, spesso il pranzo e la cena erano un paio di acciughe, scrollate dal sale e infilate dentro un tozzo di pane. Molte volte l’attività non portava grandi guadagni, ma consentiva, a chi la praticava, di non pesare sulla famiglia: per qualche mese c’era una bocca in meno da sfamare.
Per alcuni, fu invece l’inizio della propria fortuna. I più bravi, ma anche scaltri e abili, fondarono dei veri imperi economici e industrie dedite alla conservazione del pesce. Negli anni ’60 la maggior parte degli acciugai ha abbandonato le montagne e si è trasferita in pianura, continuando il commercio con mezzi a motore. Ancora oggi è possibile trovare, nei mercati rionali o di paese, venditori di acciughe provenienti dalla Val Maira.
Mi piace pensare che chi saliva per quei sentieri che dal mare, passando per le montagne, portavano nelle nostre terre, cercando di non pagare gabelle, lo facesse per sopravvivere in tempi non facili.
Mi piace pensare che quegli uomini che passavano per sentieri pericolosi e insicuri, esposti a terrificanti orridi e neppure tracciati ma ricordati a memoria da viaggiatori più esperti, diventati nel tempo vere e proprie guide delle carovane, che con carretti, a dorso di mulo oppure in spalla a seconda della transitabilità affrontavano quelle pericolose fossero in qualche misura i progenitori di quegli acciugai che per procurarsi un tozzo di pane per se e per le famiglie hanno percorso chilometri al freddo e con fatiche inenarrabili.
Mi piace pensare a tutto questo quando assaggiamo la bagna caoda.
Mi piace pensare che questo piatto ormai così caratterizzante la cucina delle nostre terre, abbia alle spalle storie, romanzate o vere che siano, che raccontano di una lotta per sopravvivere delle generazioni che hanno preceduto, in una terra dura ma che con la loro tanta fatica è diventata generosa come la conosciamo noi oggi.
Per questo ho detto in tante occasioni che pensare alla bagna caoda è pensare e ripercorrere pezzi di storia che abbiamo alle spalle e che ci aiutano a capire anche l presente.
Per chi fosse interessato ad approfondire consiglio la lettura
Il salto dell’acciuga di Nico Orengo
La via del sale. Storie di acciugai della Val Maira di Diego Crestani e Riccardo Abello