ENZO BIANCHI

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Scienza e fede in conflitto?
Uno dei confronti più aspri che la storia delle società occidentali ha conosciuto è sicuramente quella tra scienza e fede: nel passato ha sovente assunto gli aspetti di un autentico conflitto, ma ancora oggi si ripresenta tra corpi sociali in competizione e che riguarda lo statuto del “sapere” e del potere che da esso deriva. Eppure la fede non ha nulla da temere dal sapere scientifico, così come la scienza non trova ostacoli nella fede, perché dalla fede è assolutamente autonoma. Non dovrebbero essere dimenticate le parole autoritative del Vaticano II: “tutte le cose sono state stabilite secondo la loro consistenza e la loro specificità. L’uomo deve rispettare questo e riconoscere i metodi propri di ciascuna delle scienze e delle tecniche. . . la ricerca in tutti gli spazi del sapere se è condotta in modo veramente scientifico e se segue le norme dell’etica (cioè se resta sempre a servizio dell’uomo e dell’umanità) non sarà mai opposta alla fede” (Gaudium et spes 36).
La scienza fa parte della vocazione e della missione dell’uomo e per questo deve sempre restare al servizio dell’umanizzazione, della qualità della convivenza sociale, della grandezza e della dignità insita in ogni persona: questa, in verità, la preoccupazione dei cristiani. Quando essi auspicano e propiziano un dialogo non lo fanno nella prospettiva di stabilire razionalmente con prove scientifiche l’esistenza di Dio e la sua azione nella storia – scienza e fede sono due istanze del sapere che non si pongono sullo stesso piano – bensì nell’ottica di un’attenzione all’uomo e di una cura della terra e del cosmo intero.
In questi ultimi decenni i cristiani hanno compiuto una scelta intellettuale audace: prendere sul serio il metodo scientifico che rinvia a una sapere rigoroso, ma un sapere che non pretende – come è accaduto nell’ottica positivista – di essere esaustivo e definitivo, ultimo. Occorre però che anche gli uomini della scienza, senza dover nulla alla teologia, senza innestare nella loro ricerca l’ipotesi Dio, non finiscano per identificare il “sapere religioso” con la superstizione o atteggiamento puerile. La scienza ha necessità di restare modesta, consapevole dei propri limiti, di rinunciare a pretese monopolistiche o a fare di se stessa un idolo. Già Pascal metteva in guardia sul pericolo che diventasse “un idolo la verità stessa” e questo suo ammonimento può valere in ambito scientifico come in quello teologico.
Oggi il possibile conflitto tra scienza e fede può essere acceso da correnti fondamentaliste cristiane e da uomini della scienza e della tecnica che pretendono uno statuto di infallibilità, soprattutto nel campo della biologia e delle sue applicazioni in medicina. Si registra infatti un confronto riguardo a quelle che Freud leggeva come tre umiliazioni inflitte all’uomo dalla modernità scientifica e che sollevano tre interrogativi: il decentramento dell’uomo rispetto al cosmo significa che l’essere umano è dovuto al caso, a un “bricolage”, secondo il termine usato negli ambienti evoluzionisti? Se l’uomo è geneticamente inscritto in una competizione di viventi, non risulta essere altro che un’espressione del “gene egoista” fondamento di tutta l’attività vitale? E se per le neuroscienze l’uomo è solo un essere neuronale, allora il suo “spirito” è unicamente il prodotto di una organizzazione del cervello?
Soprattutto di fronte a queste ricerche scientifiche alcuni credenti sono a volte impauriti, smarriti e ripiegano su posizioni creazioniste – come i cristiani fondamentalisti nordamericani – oppure concordiste, cioè tese a dimostrare una “concordia” tra dati scientifici e testi biblici. Non mi pare però questa la via percorribile: la strada maestra rimane quella dell’ascolto reciproco, del confronto critico, del dialogo: ciò che deve preoccupare uomini di fede e uomini di scienza è il cammino di umanizzazione personale e delle diverse società, ciò che va temuto è la strumentalizzazione, la manipolazione, la reificazione del soggetto umano.
Gli interrogativi sui rapporti tra scienza e potere, scienza e sviluppo, scienza e democrazia, scienza e tecnica e il loro molteplice intersecarsi riguardano tutti, credenti e non credenti. Ma gli uomini delle scienza non si avventurino in opzioni teologiche né assumano opzioni contro la teologia, e i credenti, dal canto loro, non chiedano alla scienza ciò che solo la fede può dare: nella fede cristiana questo mondo e in esso l’uomo non è dovuto né al caso né alla necessità. E’ dovuto all’amore e alla libertà del Dio al quale si aderisce, del quale si fa esperienza nella vita quotidiana. Questa fede che abita i credenti è razionale, ma non deriva unicamente dalla ragione, ma dall’iniziativa di Dio. Un credente autentico non ha paura della scienza, non assume verso di essa posizioni difensive o antagoniste ma, credendo in Dio, è preoccupato del presente e dell’avvenire dell’umanità e vuole che le scienze restino e si esercitino a servizio dell’uomo e del mondo che da lui abitato.
Enzo Bianchi



Per una lettura del cristianesimo in Italia
La Stampa, 4 novembre 2007
Inchieste e sondaggi richiamano periodicamente l’attenzione su vari aspetti del fenomeno religioso in Italia, offrendo preziosi spunti di riflessione, ma nel leggerne i risultati bisognerebbe sempre tener conto di alcune avvertenze. Innanzitutto, nessuna indagine “religiosa”, per quanto scientificamente condotta, così come nessuna intuizione o esperienza personale può pervenire a misurare la “fede” di una persona o di una collettività: si possono cogliere solo alcuni elementi esterni, quelli quantitativamente misurabili, e fotografie parziali di vissuti che restano comunque insondabili nella loro pienezza e profondità. Inoltre lo sguardo dei sociologi, sempre più acuto e importante, non pretende mai di essere esaustivo e sovente si rivela limitato perché troppo legato al presente, privo di “memoria” e di capacità di lettura delle dinamiche. Anche quando si raffrontassero sondaggi analoghi effettuati a distanza di anni o anche solo di mesi, si avrebbero paragoni tra due “fotografie” puntuali e non una visione panoramica e dinamica dell’evolversi di una situazione o di un costume. Accanto alla sociologia, poi, resta fondamentale nel leggere situazioni segnate dal “religioso” il contributo degli antropologi, così come l’apporto di persone immerse nelle realtà religiose e capaci di ascoltare con prossimità i movimenti, le oscillazioni e le contraddizioni che contraddistinguono l’ambito particolare del rapporto tra l’essere umano e le realtà “altre”.
Quando si applicano questi tentativi di lettura alla situazione italiana, l’impresa si complica ulteriormente perché il cattolicesimo nel nostro paese ha una specificità a volte enigmatica nelle sue patologie come nelle sue positività. Chi, come me, conosce bene la situazione della chiesa cattolica in Europa occidentale grazie alle frequenti occasioni di confronto in diversi paesi, non può non rilevare alcune particolarità. Innanzitutto Il cattolicesimo italiano è un fatto ancora visibile, che si impone a sa essere eloquente anche a livello pubblico. Se gli ultimi quarant’anni hanno visto un sensibile calo della pratica religiosa domenicale – attualmente attestata tra il 17% e il 20% della popolazione – questo non significa una scomparsa delle convinzioni cristiane nella vita degli italiani: non a caso, se interrogati, gli italiani si dichiarano per il 70% cattolici (un dato non lontano dal numero dei battezzati) e una percentuale ancor più elevata di genitori desidera per i propri figli l’insegnamento della religione cattolica nella scuola. Qui sorge un primo enigma: come mai solo un quinto di quanti si dichiarano cattolici ha un legame reale e non sporadico con la comunità cristiana e la sua vita liturgica?
Da alcuni anni molti sono portati a leggere questa specificità del cattolicesimo italiano con la categoria della “popolarità”. Sovente si attesta l’esistenza di “un volto popolare del cattolicesimo italiano”, “un radicamento della fede nella società”, “una presenza capillare del cattolicesimo nella vita quotidiana”. . . Sono espressioni che contengono elementi di verità ma che richiederebbero un discernimento ulteriore e più profondo, soprattutto non ci si dovrebbe accontentare di un cristianesimo “minimo” ma, prima che sia troppo tardi, richiedere e favorire scelte coerenti con una misura “alta” della vita cristiana ordinaria. Altrimenti il rischio è quello di un cattolicesimo popolare, sì ma svuotato di una rilevanza del primato della fede cristiana: già oggi come possiamo interpretare il dato che, se interrogati, più di metà di quanti si dichiarano cattolici affermano di non credere nell’al di là, nella vita eterna, nella risurrezione di Cristo e della carne? E cosa indica il fatto che non si provi contraddizione né consapevolezza di peccato nel proclamarsi cattolici e nel disattendere in modo sistematico le esigenze morali del vangelo e nell’assumere comportamenti etici che – nell’ambito dell’uso dei beni o dell’esercizio della sessualità, per esempio – disattendono il messaggio di Gesù di Nazaret?
In questa situazione molti finiscono per auspicare un cristianesimo vissuto secondo il paradigma della religione forte e incarnato in minoranze attive ed efficaci, capaci di assicurare identità e visibilità che si impongono perché pensate in una strategia difensiva e di concorrenza. Da parte mia ritengo invece che, pur mantenendo una dimensione “popolare”, solo vivendo la differenza cristiana nella compagnia degli uomini si innesta una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici. Se invece ci si accontenta di questa “popolarità” e la si cavalca a scapito della qualità cristiana della vita e, di conseguenza, della testimonianza, si corre il rischio di divenire sale che perde il suo sapore, di veder svanire la forza del regno che come lievito fa fermentare tutta la pasta, di essere magari città posta sul monte ma priva di splendore che attira lo sguardo, di scoprirsi lampada posta sul candelabro ma incapace di illuminare alcunché.
Per questo rimane indispensabile la lettura e la conoscenza del vangelo tra quanti compongono la comunità cristiana. Infatti, se è vero che il cristianesimo non è religione del libro, è altrettanto vero che solo il vangelo consente la conoscenza di Gesù Cristo, centro e cuore del cristianesimo. “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”, affermava san Girolamo, ripreso non a caso dal Vaticano II. Quale figura di cristiano può mai emergere senza una conoscenza diretta di Gesù Cristo e della sua umanità esemplare come quella che può venire dalla lettura e dalla familiarità con i vangeli? Un cristianesimo in cui il vangelo non ispira la vita e il vissuto dei credenti come riuscirà a non divenire rituale, devozionale, a non ridursi a fatto culturale o sociale, se non addirittura a fenomeno folcloristico o superstizioso? Solo con la lettura personale e diretta della Bibbia – e, in primo luogo, dei vangeli – il cristiano può nutrire la sua fede e irrobustire la sua capacità di testimoniarla.
In questo senso sarebbe auspicabile un percorso di serio approfondimento nella comunità cristiana che tenga conto di due esigenze. La prima è quella di porre l’accento sul vangelo, su quel testo che il concilio ha voluto e saputo ridare in mano ai cattolici nella sua interezza e ricchezza dopo secoli di esilio della Scrittura dalla catechesi e dalla predicazione: alcuni si stupiscono, altri si rammaricano di fronte al dato che neppure un quinto degli italiani afferma di aver letto i quattro vangeli. Senza conoscere il vangelo com’è possibile conoscere Gesù Cristo e sentirlo quale Signore? Come si può cogliere la sua umanità esemplare per noi uomini, l’essersi fatto uomo di Dio “per insegnarci a vivere da uomini in questo mondo”, secondo l’espressione di san Paolo? Come percepire che scopo dell’umanizzazione di Dio è l’autentica umanizzazione dell’uomo?
La seconda esigenza è l’ascolto dell’umanità di oggi, uomini e donne: un ascolto che deve avvenire attraverso l’emergenza della dimensione antropologica. Sì, sul tenere insieme il vangelo e l’uomo, la fede e la dimensione antropologica si gioca il futuro della fede cristiana in Italia. Se c’è stato e c’è un fallimento, è quello della trasmissione, della “tradizione” della fede, ma l’antidoto consiste ormai solo nel ristabilire il primato del vangelo e l’ascolto dell’umano. In una stagione in cui tutto è rimesso in discussione – la concezione del rapporto con il proprio corpo, con l’altro sesso, con la sofferenza, con il tempo, con la natura. . . – occorre elaborare risposte di sapienza che dicano chi è l’essere umano e come possa umanizzarsi attraverso una qualità di vita personale e di convivenza.
La religione ha bisogno dell’esercizio della ragione per non cadere in forme paganeggianti, magiche o superstiziose, ma ha anche bisogno che questo esercizio razionale avvenga non senza gli altri ma con gli altri, tutti abitanti della stessa polis. Insieme, cristiani e non cristiani, dobbiamo porci la questione antropologica: chi è l’uomo? Dove va? Come può vivere in una società che lotta contro la barbarie e a favore dell’umanizzazione? Dalle risposte che ciascuno saprà dare attingendole dal proprio patrimonio spirituale dipende certamente il nostro futuro, ma anche, già da oggi, la qualità della nostra vita personale e della convivenza civile.
Enzo Bianchi


Invito a sperare
La Stampa, 1 dicembre 2007
Dopo l’enciclica sull’amore, ecco la seconda lettera di Benedetto XVI, sulla speranza: un messaggio che oggi appare controcorrente. Viviamo infatti in un tempo che è posto sotto il segno della crisi, un tempo letto addirittura come tempo della “fine” – fine della cultura occidentale, della modernità, della cristianità – un’epoca caratterizzata da un senso di precarietà del presente e di incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognita che ci sta davanti ci spaventa per la sua imprevedibilità e insieme per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano. Abitiamo un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando.
Tutto questo però non ha assopito la domanda che, magari con fatica, si apre un varco nel cuore umano: “Che cosa posso, cosa possiamo sperare?”. Ecco, la nuova enciclica di papa Benedetto XVI è una salda conferma della fede cristiana che è speranza, ma è anche un grande invito a sperare: con molta forza il testo torna a parlare delle “realtà invisibili”, della “vita eterna”, dell’escatologia come di un orizzonte che non può essere dimenticato né sottovalutato dai cristiani. Un’enciclica di non facile lettura, certo, un testo che richiede dei “lettori” che sappiano veicolare il suo messaggio ai cristiani quotidiani e semplici, ma un testo magisteriale che con molta forza e audacia rimette al centro della vita cristiana verità su cui si balbettava appena qualcosa, quando addirittura non erano confinate nel silenzio.
C’è anche una rilettura della trasformazione della fede-speranza nel tempo moderno, nell’illuminismo e soprattutto nelle ideologie messianiche, rilettura che precisa meglio lo specifico della speranza cristiana e fa intravedere le derive possibili e l’affacciarsi della barbarie ogni volta che la speranza è riposta in realtà idolatriche e alienanti come il progresso e la rivoluzione, l’idolatria della ragione e della libertà.
Ma di altissima importanza restano le pagine finali che indicano luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza: la preghiera, certo, la lotta contro il male e la sofferenza, ma soprattutto il “giudizio”. Sì, il giudizio finale che Dio compirà nel suo giorno sulla storia e sull’umanità intera. Tema tralasciato anche dalla predicazione ordinaria eppure tema che non da oggi reputo decisivo per la responsabilità cristiana. I cristiani affermano nella loro professione di fede che in questo giudizio credono e che lo attendono come l’evento che instaurerà la giustizia, rendendola a tutti coloro che nella storia hanno subìto ingiustizie e oppressioni. Sì, se si toglie il giudizio emesso da Cristo sull’umanità, tutta la fede cristiana diventa risibile utopia.
Ma la consapevolezza e la fede nel giudizio innesca innanzitutto una responsabilità dell’uomo nella storia, alimenta l’attesa di un atto di Dio che metta fine al male e instauri la vita piena anche per quelli che nella vita si sono visti defraudare del bene, della pace e della felicità. Non a caso Benedetto XVI cita il grande filosofo Adorno che nel suo ragionare ateo afferma che una vera giustizia proveniente da uno sviluppo, da un progresso rivoluzionario, richiederebbe un mondo “in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata . . . ma anche la sofferenza e l’ingiustizia del passato”. E questo richiederebbe ciò che lui non poteva affermare, cioè la “risurrezione dei morti”.
La seconda esigenza è l’ascolto dell’umanità di oggi, uomini e donne: un ascolto che deve avvenire attraverso l’emergenza della dimensione antropologica. Sì, sul tenere insieme il vangelo e l’uomo, la fede e la dimensione antropologica si gioca il futuro della fede cristiana in Italia. Se c’è stato e c’è un fallimento, è quello della trasmissione, della “tradizione” della fede, ma l’antidoto consiste ormai solo nel ristabilire il primato del vangelo e l’ascolto dell’umano. In una stagione in cui tutto è rimesso in discussione – la concezione del rapporto con il proprio corpo, con l’altro sesso, con la sofferenza, con il tempo, con la natura. . . – occorre elaborare risposte di sapienza che dicano chi è l’essere umano e come possa umanizzarsi attraverso una qualità di vita personale e di convivenza.
La religione ha bisogno dell’esercizio della ragione per non cadere in forme paganeggianti, magiche o superstiziose, ma ha anche bisogno che questo esercizio razionale avvenga non senza gli altri ma con gli altri, tutti abitanti della stessa polis. Insieme, cristiani e non cristiani, dobbiamo porci la questione antropologica: chi è l’uomo? Dove va? Come può vivere in una società che lotta contro la barbarie e a favore dell’umanizzazione? Dalle risposte che ciascuno saprà dare attingendole dal proprio patrimonio spirituale dipende certamente il nostro futuro, ma anche, già da oggi, la qualità della nostra vita personale e della convivenza civile.
Enzo Bianchi


Nelle vigne l'amore per la vita
Agosto non è ancora finito e quest’anno la vendemmia è già iniziata, con un mese d’anticipo a causa del caldo precoce di giugno, un caldo che tuttavia nell’ultimo mese ha lasciato a desiderare. E’ il momento allora di parlare di vigne, di vite, di vendemmia e di vino. Ne parlo perché è lì, tra le vigne, che sono nato e cresciuto, tra filari che coprivano e coprono ancora le colline del Monferrato: “e vigne, e vigne, e vigne senza fine”.
Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezzora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Così ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.
D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni paiono ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondare la vigna, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che trancia il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E lì, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lì, ai primi tepori, la vite “piange”, versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.
Ma poi ecco la bella stagione, un’esplosione di vegetazione che muta il colore alle colline: i grigi e gli ocra delle terre si ammantano di verdi e verso sera, sotto lo sguardo amico della luna, si accendono i falò ai bordi delle vigne e si bruciano i tralci potati e seccati. Con la fioritura sboccia anche un nuovo ritmo, la pulsione della vita accelera, la terra cotta dal sole pompa linfa in ogni tralcio, gli acini si gonfiano e anche il vignaiolo fa la sua parte: passa tra i filari, constata i risultati effettivi della potatura, come se leggesse le istruzioni per il prossimo anno, e ancora una volta contiene, limita, “abbassa” le viti per permettere al sole di colpire al meglio i grappoli. Così, agli inizi di agosto, attorno a San Lorenzo, gli acini si tingono di un nero ingioiellato di riflessi bluastri.
L’estate scorre veloce e quando le giornate iniziano a rimpicciolirsi e le frescure serali a farsi sentire, ecco il tempo della vendemmia, della raccolta del frutto di tanto lavoro e soprattutto di tanta attesa, ecco il tempo di “fare il vino”.. Sì, con la vendemmia finisce veramente l’anno per i contadini, perché tutto nel ciclo dei viticoltori tende verso questa “ora”, l’ora per eccellenza in cui valutare se l’annata è andata bene o male, se essere contenti o frustrati del proprio mestiere. Anche per questo è sempre difficile decidere quando scocca esattamente quest’ora, quando mettere mano alla vendemmia e da quali vigne iniziare. Normalmente si parte dalle vigne di uva bianca, le più assolate, ma nulla è scontato e sembra che il contadino debba ogni anno decidere tutto come fosse la prima volta. Perciò si aggira tra i filari anche più volte al giorno, osserva i grappoli, li alza delicatamente con la mano, li palpa, ne assaggia qualche acino; poi scruta il cielo, valuta il tempo, perché la pioggia con la vendemmia in corso è sempre una minaccia che può trasformarsi in autentica disgrazia per la qualità del raccolto e l’esito finale di tanta fatica. . .
Ma quando, dopo aver tutto soppesato, il tempo è compiuto e la decisione è presa, ecco che tutta la famiglia, i parenti, a volte anche gli amici che non possiedono vigne loro, sono convocati per vivere la vendemmia, che è rito prima ancora che lavoro: vera celebrazione sui pendii delle colline, celebrazione alimentata da canti che coprono il suono ossessivo della pinza che con maestria taglia i grappoli. Sì, un tempo si era davvero tutti nelle vigne, e anche i bambini facevano la loro parte con estrema naturalezza, imparando come per gioco quello che sarebbe diventato un mestiere per la vita. E carri trainati dai buoi, con le bigonce cariche di uva si incrociavano per le strade che conducevano alle varie cascine o verso la cantina sociale.
A volte scarsa, a volte abbondante, raccolta con il nuvolo oppure assolata, la vendemmia poneva fine alle attese, alle ansie, ai timori. Il silenzio della “brutta stagione” che fa stare in casa invadeva il giorno e sembrava vincerlo, un silenzio abitato non da parole, ma da un odore intenso, quello del mosto e delle vinacce che saliva dalle cantine e si diffondeva per tutta la valle, inondandola di profumo: era il profumo del vino in gestazione che cantava nel silenzio.
Le vigne, dal canto loro, spogliate dei grappoli maturi, non rinunciavano per questo a narrare il loro amore per la terra e per l’uomo che le aveva sapientemente accudite; così si vestivano a festa, riprendendosi i colori che la tavolozza di un pittore impressionista aveva preso a prestito da loro: le foglie giallo paglierino del moscato, quelle rosso paonazzo del brachetto, le viola del dolcetto, quelle verde antico del barbera. . . Inutile cercare di descrivere una vigna a fine ottobre, così cangiante al sole o all’ombra, mutevole tra le nebbioline autunnali e le nubi incombenti: certo, in autunno le foglie sono più belle dei fiori.
Guardare le vigne significa provare gioia e malinconia insieme, una malinconia che un tempo era accresciuta perché quelli erano anche i giorni delle migrazioni, dei mezzadri che lasciavano la cascina e la vigna lavorata in affitto per altre terre e altre viti. “Fanno San Martino”, ci dicevano, e noi bambini salutavamo commossi i nostri compagni di scuola, senza capire perché mai quel santo chiedesse agli uni di partire e agli altri di restare. Erano quelli, e lo sono ancora, i giorni in cui il cielo si spoglia delle ali di tanti uccelli che avevano rallegrato l’estate: anche tra loro, alcuni partono e altri restano, ciascuno alla ricerca di una vita possibile per sé e per i propri piccoli. Giorni di malinconia, attenuati da qualche ora di tiepido sole prima di giungere alle soglie dell’inverno: non a caso la si chiamava la “stagione dei morti”.
Intanto però il vino è fatto e se ne sta quieto nelle botti, avendo calmato i suoi bollori. Finito il tempo del lavoro nella vigna, è il vino ora a lavorare silenzioso in cantina: si affina in modo misterioso, costruisce il suo carattere e, come la vigna da cui proviene, chiede a sua volta attesa, pazienza a chi lo ha fatto e curato. . .
Nel grande codice della nostra cultura, la bibbia, si narra il mito di Noè che per primo piantò e coltivò una vigna: sopravvissuto al diluvio universale che aveva accomunato umanità e natura nella devastazione, Noè per prima cosa pone un gesto di grande speranza, contrae un matrimonio con la terra: già il piantare un albero, infatti, è compiere un gesto di grande speranza, ma piantare una vigna lo è ancor di più perché occorrono anni e anni per goderne il frutto, occorre decidere di fare alleanza con quella terra, di fermarsi là, di lavorarla a lungo in pura perdita. Possiamo immaginarci lo stupore di Noè quando ha finalmente tra le mani quei grappoli a lungo attesi, lo possiamo quasi vedere affascinato e sedotto da un fatto misterioso: avendo spremuto quei grappoli vendemmiati per berne il succo, si accorge che questo fermenta, diventa mosto, ribolle, si solleva, come il ventre di una donna incinta, come l’impasto di acqua e farina di cereali. . . Noè beve quel succo in cui scorge una vitalità inattesa, ne prova allegria, si sente consolato per tutta la tristezza provata durante il diluvio: ne aveva viste tante e troppe. Possiamo forse accusarlo per aver bevuto ancora, per aver cercato oblio e consolazione nel frutto del lavoro delle proprie mani? Possiamo rimproverarlo per l’ebbrezza di chi non conosceva la misura? Ma senza misura erano state le disgrazie attraversate, senza misura l’ansia per un futuro senza vita. . .
Enzo Bianchi



“Essere minoritari non significa essere insignificanti”
intervista ad Enzo Bianchi a cura di Jean-Marie Guénois
traduzione dal francese a cura della redazione di finesettimana.org
La Croix ,17 novembre 2007
Fondatore di una comunità monastica ecumenica in Italia, Fratel Enzo Bianchi non è preoccupato per il futuro del cristianesimo.
Lei osa affermare che la fine della cristianità è un’opportunità per il cristianesimo…
E lo confermo, poiché il cristianesimo ha vissuto fino ad ora un’ambiguità, quella di “essere” cristiani senza aver dovuto diventarlo, di essere praticanti senza veramente vivere un cammino di fede personale. Questa coincidenza tra la fede e la società non esiste più, e la nuova situazione di minoranza dei cristiani è un’opportunità per manifestare che la loro fede è vissuta nella libertà e per amore. La libertà e l’amore sono in effetti le condizioni della vita cristiana. Non sono più il caso o la necessità.
Diventare minoranza può condurre ad una futura scomparsa: ciò non la preoccupa?
Essere minoritari non significa essere insignificanti. Ci sono delle minoranze efficaci, che agiscono nella società perché il messaggio cristiano sia ascoltato. Bisogna quindi stare attenti che questo statuto di minoranza non porti ad un soffocamento, ma sia come il sale o la luce del mondo. Bisogna che la minoranza cristiana abbia la possibilità reale di esercitare una vera influenza evangelica nel cuore dell’umanità.
Minoritari, i cristiani devono cercare di avere influenza sulla società?
Non bisogna né avere l’ossessione dell’influenza, né averne paura. La vera vita cristiana porta in sé un messaggio di umanizzazione. La spiritualità cristiana è, in fondo, un’arte di vivere umanamente. Se gli uomini percepiscono che i cristiani hanno una vita buona, vera e felice, si porranno la domanda sul fondamento di questa vita, e l’annuncio di Gesù Cristo diventerà quasi naturale. Si farà nel dialogo, senza imporsi.
La transizione tra un’epoca segnata da un cristianesimo dominante e questo nuovo statuto di minoranza è vissuta come un trauma da molti nella Chiesa. Da Lei no?
E’ un passaggio doloroso e una prova, ma non bisogna aver paura, né temere. I nostri occhi fanno fatica a discernere e non bisogna fidarsi delle statistiche, perché la fede non è misurabile. Nessuno, nella nostra società secolarizzata, è infatti capace di misurare l’influenza durevole del Vangelo quando tocca il cuore di un uomo.
Lei non è quindi preoccupato per il futuro?
Ho una grande fiducia, perché se noi crediamo che il cristianesimo è una forma di umanizzazione, allora gli uomini si interesseranno al cristianesimo. Se ci fossero degli ostacoli nel processo di umanizzazione, verrebbero da noi e non dal mondo. Siamo noi che non siamo capaci di dire la nostra speranza, di suscitare negli altri interesse con la nostra arte di vivere e di fare della nostra vita umana con il Cristo un vero capolavoro.
Lo statuto di minoranza può accompagnarsi ad un atteggiamento di chiusura all’interno della propria comunità confessionale con degli irrigidimenti: che cosa ne pensa?
Bisogna riconoscere che il dialogo, l’apertura agli altri, l’esercizio dell’alterità è diventato più difficile, perché suscitano diffidenza e attraversiamo una specie di inverno in tutte le religioni. Ma è un periodo che passerà. Se la Chiesa resiste alla mondanità, se la Chiesa comprende che pregare Gesù Cristo per l’unità non è una moda, ma appartiene all’essenza stessa della vita cristiana, allora avremo una nuova primavera dell’ecumenismo, un tempo nuovo per il dialogo.
Lei è ottimista!
Ho veramente speranza. E’ un’ora che passerà. Ancora una volta, il Vangelo avrà la meglio su tutte queste contraddizioni.
Ma come evitare il peggio?
Siamo condannati alla dinamica della Pentecoste. Il cristianesimo è plurale. Deve imparare la diversità e non l’uniformità. E spero che la si troverà nel ministero di Pietro (quello del papa come vescovo di Roma), un ministero di unità che è necessario per tutte le Chiese, come il Signore lo ha voluto. Il papa può infatti svolgere un ruolo perché si realizzi la comunione delle Chiese. Così fu durante il primo millennio del cristianesimo. Io soffro oggi per lo spirito ecumenico perché ci sono, nelle Chiese, delle persone che lavorano contro l’unità o che costruiscono una prassi difensiva. Non la vinceranno, perché lo spirito del Vangelo vincerà queste opposizioni. Ma diffidiamo del disprezzo per le altre culture: non è questo lo spirito cristiano. Cristo è stato capace di sedersi alla tavola dei peccatori, è addirittura morto tra due malfattori. La Chiesa è il suo corpo, non può avere una strada diversa da quella del suo Signore! Ma deve avere il coraggio di essere uno spazio di incontro e di ascolto di ogni uomo: allora il Vangelo potrà dilatarsi e raggiungere ogni uomo.
Il futuro dei cristiani passa anche attraverso un accresciuto dialogo con le altre religioni?
Bisogna essere molto chiari su questo punto. Non sono d’accordo quando si afferma che il cristianesimo è uno dei tre monoteismi. Il cristianesimo è un monoteismo speciale, poiché la via che ci porta a Dio come comunione e Trinità, è un uomo. E’ attraverso l’umanità di Cristo che noi possiamo andare a Dio. Altra specificità, il cristianesimo ha stabilito tre rotture: tra il sangue e la famiglia, tra la terra e la patria, tra il tempio e la religione. Queste tre rotture impediscono ai cristiani di essere fondamentalisti, nazionalisti e uniformi… Certo, la verità resta una - è il Cristo! -, ma l’antropologia cristiana è plurale e deve assolutamente passare attraverso un’interpretazione umana. Una terza specificità cristiana consiste nel credere che ogni uomo è ad immagine e somiglianza di Dio. Anche se un uomo perde la sua somiglianza con Dio, conserva in sé la sua immagine e resta quindi sempre capace di fare il bene. A partire da queste specificità, e con questa capacità di ascolto, bisogna che noi conduciamo un dialogo per essere insieme ai fratelli. Il che non vuol dire avanzare nel dialogo interreligioso con uno spirito irenico, ma condurre questi dialoghi sul piano dell’umanità e su quello della ragione. Avendo il coraggio del confronto, e di chiedere sia all’islam che all’ebraismo di leggere i testi come parole umane dove si può trovare la Parola di Dio, senza lasciare spazio al fondamentalismo o a letture senza rapporto con la realtà.
Lei pensa che il futuro del cristianesimo possa essere oscurato dallo scontro di civiltà?
E’ sull’etica che avrà luogo lo scontro di civiltà. In Italia, per esempio, vedo crescere un anticlericalismo che non era presente dieci anni fa, e si trasforma perfino in anticristianesimo.
Come evitarlo?
Bisogna creare uno stile di ascolto. I cristiani e in particolare i cattolici ascoltano troppo poco. Senza ascolto, non c’è comunicazione e futuro comune. Solo un esercizio di ascolto può condurre alla comunicazione, poi la comunicazione può portare alla comunione. La Chiesa, in ambito etico, vuole essere a servizio della dignità dell’uomo: com’è che passa talvolta per fondamentalista? Ci esprimiamo attraverso dei divieti, e non siamo quindi capiti. Dobbiamo parlare ai credenti e ai non cristiani con termini diversi da quelli della catechesi. Se presentiamo la legge naturale come l’abbecedario della qualità umana dell’uomo, potremo partecipare alla costruzione di un’etica mondiale.
Quale priorità vede per il futuro della Chiesa?
Per quanto riguarda la vita interna della Chiesa, c’è una parola che non abbiamo il coraggio di usare, è quella di “sinodalità”. La sinodalità consiste nel camminare insieme con le nostre differenze. La Chiesa, da parte sua, parla di collegialità, il che si riferisce ad una stessa appartenenza. Ora, la sinodalità è una necessità urgente per mostrare che la Chiesa è una comunione nella diversità. Se la Chiesa non è una comunione in se stessa, non saprà essere in comunione con gli altri. E quando si fa un cammino senza gli altri si finisce per farlo contro gli altri.


Enzo Bianchi, profeta suo malgrado
di J.-M. G., “La Croix” del 17 novembre 2007
Questo religioso atipico ha realizzato un progetto monastico unico. La sua faccia tonda e la sua barba bianca, senza parlare della sua voce stentorea, sono ben conosciute nel mondo cristiano dove è immagine di profeta: non quello che predice il futuro, ma quello che può inventarlo, e senza dubbio costruirlo. Questo laico (rivendica sempre questo statuto, non essendo prete) aspirava alla vita eremitica. Nel 1968, si trova, un po’ suo malgrado, fondatore di una comunità assolutamente originale: è una comunità ecumenica e riunisce sotto gli stessi tetti degli uomini e delle donne nel piccolo villaggio di Bose, nel Nord Italia, non lontano da Aosta e da Torino. Controllato da vicino, atteso al varco, questo progetto ha avuto successo e procede negli anni. Oggi, sono quasi 70 i monaci e le monache che, diverse volte al giorno, pregano gli uni davanti agli altri in una bella cappella. Fra di loro ci sono dei protestanti e un ortodosso, anche se la maggioranza è cattolica. Vi sono anche dei postulanti, in numero tale che la comunità non accetta tutte le richieste: un fenomeno raro in Occidente. Vi sono infine in un anno più di 15.000 persone in ritiro, che si stringono qui per fermarsi, restare in silenzio, lasciarsi istruire e pregare. Niente di eccezionale, tuttavia, né di sgargiante nella liturgia (ma il salmodiare è molto piacevole), nessuno stile elaborato né estetismi: la preghiera, la lectio divina, la liturgia delle ore, il lavoro manuale e intellettuale, la vita in comunità, un ritorno radicale alla sorgente semplice della vita eremitica secondo i Padri del deserto. “La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, qui è tutto l’anno”, scherza Enzo Bianchi nel sul bell’accento aspro del Piemonte. Anni di unità che passano, e una comunità che tiene. Ecco dunque il segreto di questo profeta gioviale: tentare di vivere nel presente e nell’implorazione il dono dell’unità dei cristiani chiesto da Cristo. Senza troppi discorsi, ma con gli atti. Nel 1965, Enzo Bianchi aveva cominciato da solo in questo luogo. Tre anni più tardi, nel 1968, dei “fratelli” e delle “sorelle” cominciano a raggiungerlo. Nel 1973, la vigilia di Pasqua, i primi sette fanno la loro professione di fede monastica. “Tu non sei entrato in comunità per rifare una Chiesa che ti soddisfacesse o che fosse a tua misura; tu appartieni a Cristo attraverso la Chiesa che ti ha generato a Lui con il battesimo. Tu riconoscerai quindi i suoi pastori, i suoi ministeri nella loro diversità e cercherai sempre di essere segno di unità” è scritto al numero 43 della regola di Bose.

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