VENT'ANNI FA CI LASCIAVA GIUSEPPE DOSSETTI

Un testo di Pierluigi Castagnetti


Il 15 dicembre 1996 moriva a Oliveto di Monteveglio Giuseppe Dossetti, per ricordarlo di seguito la relazione di Pierluigi Castagnetti al Convegno, che si è tenuto a Bologna il 12 gennaio 2017 con la partecipazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “Costruzione e Rinnovamento. 
Dossetti fra Costituzione e Concilio” organizzato dall’Istituto di Scienze Religiose di Bologna per ricordare il grande costituente nel ventennale della morte.

Dossetti è stato per due periodi non lunghi (1945/46 e 1950/51) vice segretario della Democrazia Cristiana; in effetti, dal 1945 al 1951, fu l’alter ego di Alcide De Gasperi, leader indiscusso del partito e del paese.
I rapporti fra i due non sono facili da definire perché, al di là di una profonda stima reciproca e persino  ammirazione per aspetti delle rispettive personalità che ognuno riconosceva all’altro, al fondo vi erano visioni globali e strategiche assai diverse.
Diversi i percorsi formativi e le esperienze precedenti dell’uno e dell’altro.
Diverso era l’approccio alla politica: De Gasperi non disdegnava parlare della politica come “vocazione” e come “professione”, Dossetti relegava invece l’impegno politico al Kairòs, al momento storico preciso.
Diverso era il ruolo attribuito al partito politico: per De Gasperi doveva essere subordinato alla centralità dell’azione del governo, per Dossetti esattamente il contrario.
Diverso era il modo di vedere il rapporto fra politica ed economia: per De Gasperi doveva essere molto stretto, collaborativo e, com’era solito dire, “realistico”, per Dossetti doveva essere di separazione netta, non rinunciando in ogni caso al primato della politica.
Diversa era la visione delle alleanze internazionali: per De Gasperi occorreva realisticamente prendere atto che Yalta, oltre che la geografia, aveva collocato l’Italia nella parte occidentale del mondo e la nostra politica estera doveva trarne tutte le conseguenze, per Dossetti non si doveva rinunciare all’ambizione di una certa autonomia, pur riconosciuti i vincoli di Yalta.
E si potrebbe continuare.
Perché allora Dossetti accettò di impegnarsi in prima persona all’interno della DC?
Per tante ragioni anche se diverse nelle due occasioni in cui fece il vice-segretario.
La prima volta venne scelto, infatti, da De Gasperi e Piccioni  praticamente in sua assenza, essendo bloccato all’ospedale di Grosseto a causa di un incidente stradale, con non poco personale disappunto, non avendo allora alcuna intenzione di impegnarsi nel partito.  De Gasperi voleva che ad affiancare il vicesegretario Piccioni fossero due giovani, uno del nord (Giuseppe Dossetti, appunto) e uno del sud (Bernardo Mattarella). Scelta che si rivelò poi imprevedibilmente decisiva – De Gasperi ancora non poteva saperlo – per fare prevalere la Repubblica al successivo referendum istituzionale.
Per dire lo spirito con cui Dossetti accettò, basta ricordare quanto ebbe a scrivere il 22 agosto 1945 a p. Agostino Gemelli: “Ho cercato di fare di tutto per sottrarmi. Ma a un certo punto mi sono dovuto convincere che avrei mancato a un dovere, increscioso e di gran lunga trascendente le mie possibilità, ma sempre un dovere, che data la situazione, sarebbe stato egoismo rifiutare di adempiere”.
Si dimise dopo qualche mese per dissensi con De Gasperi nella conduzione del partito e per la scelta del referendum istituzionale, sospettando egli una riserva mentale nel segretario a favore della monarchia. Quelle dimissioni furono silenziose e in qualche modo silenziate, con la complicità dell’interessato che, nel frattempo, ottenuta la vittoria della Repubblica al referendum, si dedicò con tutte le sue energie al fondamentale lavoro dell’Assemblea Costituente.
La seconda volta, invece, nel 1950, fu costretto ad accettare per altre ragioni, di nuovo ancora difficilmente eludibili.
Dopo le elezioni del 1948 Dossetti infatti, assieme al gruppo dei suoi amici, iniziò una lunga battaglia interna al partito per indurlo ad affrontare una nuova stagione delle riforme che, in una qualche misura, trasformasse in scelte politiche quelle valoriali contenute nella Costituzione, vincendo le resistenze di quanti cercavano di riprendere e rilanciare una strategia  economica di stampo liberal-capitalistico, l’on. Pella in particolare, quando, invece, a suo avviso era maturo il tempo di una seconda fase “espansiva” dell’economia, che si facesse carico del costo altissimo pagato dai ceti popolari nei primi anni del dopoguerra. Questa iniziativa portò il gruppo dossettiano a registrare un certo successo al congresso di Venezia del 1949, e la successiva apertura di una, per il momento abbastanza prudente, strategia riformistica che necessitava però di un sostegno unitario di tutto il partito, a maggior ragione dopo la contrastata adesione dell’Italia alla Nato, dopo gli incidenti alle Fonderie di Modena in cui vennero uccisi diversi operai  per mano della polizia e dopo un accorato appello sia di De Gasperi che del segretario Gonella. Dossetti era il capo della minoranza interna e non poteva sottrarsi all’assunzione di una responsabilità adeguata alla gravità del momento.
Anche in questo caso l’esperienza si concluse dopo meno di un anno con le sue dimissioni, questa volta però accompagnate da inevitabile clamore e conseguenze politiche per molti versi traumatiche.
E’ giusto aggiungere però che, in entrambe le occasioni, l’accettazione da parte di Dossetti di un impegno diretto nella segreteria del partito fu anche il frutto di un tormento di fondo che lo ha sempre accompagnato:
era giusto infatti assumere il dato dell’immodificabilità della natura della DC, partito sostanzialmente moderato, senza aver provato a cambiarla?
E poi: se era vero ciò che i dossettiani avevano sempre sostenuto, e cioè che la democrazia, dopo la lunga esperienza fascista, per affermarsi realmente avesse bisogno di una solida coscienza democratica nel popolo, perché rinunciare a utilizzare il partito come luogo in cui educare alla partecipazione democratica le masse, nella fattispecie e in particolare quelle cattoliche?
Ancora: se era vero quanto affermato dall’arcivescovo di Baltimora, cardinale Gibbon (citato da Dossetti anche in occasione del suo più importante intervento all’Assemblea Costituente) e cioè che: “Il secolo futuro sarà il secolo in cui la Chiesa non si accorderà con i Principi e i Parlamenti, ma si accorderà con le grandi masse popolari”, perché rinunciare a usare lo strumento che nelle democrazie è espressamente preposto a collegare lo Stato con le masse, il partito politico?
C’era infatti allora il rischio concreto, e Dossetti lo verificava giorno dopo giorno, di una riproposizione nei fatti del modello di democrazia liberale prefascista con la conseguente nuova estraneizzazione del popolo e il sostanziale tradimento della Costituzione e, a monte, della Resistenza.
Queste le ragioni che lo tormentavano e che alla fine, in entrambe le occasioni, lo indussero ad accettare di impegnarsi.
E come gestì Dossetti quelle esperienze di vice segretario della DC.?
Innanzitutto affrontò l’impegno con molta professionalità. Quando assumeva un impegno vi si dedicava totalmente, cercando di conoscere  e impossessarsi della natura dell’istituzione o del tema che gli erano affidati, facendosi normalmente aiutare da uno stuolo di esperti e studiosi, i migliori allora disponibili. Padroneggiare la materia per poterla modellare, riformare, finalizzare agli obiettivi preposti: questa era la sua regola.   Diversamente dal suo amico Aldo Moro che riteneva che  il pensiero e la parola contenessero già  in sé il farsi della politica e della storia, Dossetti riteneva che il pensiero e la parola fossero solo il presupposto di ogni azione la quale, per concretizzarsi, necessitasse di strumenti, strutture e istituzioni.
Questa a me pare  la chiave per capire l’impegno massiccio, meticoloso e puntiglioso, profuso da Dossetti nella costruzione del partito. Impresa particolarmente ardua, perché si trattava di realizzare un amalgama interno fra realtà e sensibilità molto diverse, si trattava di inventare una forma-partito “a-confessionale” ma ad “ispirazione cristiana”, autonoma ma contigua alla Chiesa, somigliante ma non simile alle altre DC nate o nascenti nel resto del mondo.
La mole e il “metodo di lavoro” di Dossetti erano veramente impressionanti, un metodo che sapeva affascinare e “conquistare” chi ne era coinvolto o anche solo chi l’osservava dall’esterno: insomma, si può ben dire che Dossetti abbia rappresentato un caso abbastanza raro di intellettuale e pensatore originalissimo capace di trasformarsi in realizzatore concretissimo come pochi, tanto quando lavorava in politica che quando lavorava nel Concilio o in Curia a Bologna.
Leggiamo ne “La coscienza del fine” alcuni appunti sugli esercizi spirituali del 1950 che ci aiutano a capire meglio: “Sempre più distaccato da ogni sottinteso personale, da ogni posizione o atteggiamento di prestigio, di affermazione delle mie idee o della mia persona. Prudente e paziente nelle attese e nei molti disappunti e contrasti…Costante, deciso, energico e concludente…Specificatamente e direttamente sempre rivolto a fare il bene dei poveri e degli umili, a soddisfare le esigenze di giustizia e di pace della povera gente, a sentire i gemiti degli afflitti, degli oppressi, dei disoccupati…” .
Perché, allora, abbandonò per la seconda volta la vicesegreteria nazionale e, di lì a poco, anche l’incarico di parlamentare?
Roberto Villa nel suo recente volume (“L’invenzione del partito”, ed. Zikkaron), pone la questione se realmente dette le dimissioni o fosse stato dimissionato.
Io penso che dette le dimissioni, nel senso che la sua fu una scelta a lungo meditata e radicata, una scelta dunque “sua personale”, seppur indotta dalla definitiva costatazione dell’immodificabilità della natura del partito, e dell’invincibilità del condizionamento di troppi ambienti “esterni”- a partire dalla Chiesa- nazionali e internazionali, non disponibili  a favorire quei cambiamenti cui aveva legato la sua permanenza in politica.
Fu Dossetti stesso a parlarne ai preti della diocesi di Pordenone-Concordia nel 1994: “La mia stagione politica è durata sette anni, mettendoci dentro anche il periodo della clandestinità; nel ’52 era già finita. Finita, si! Io ho deciso che fosse finita, e sono ancora profondamente convinto che dovesse finire e che sarebbe stato un grande errore proseguirla, perché non avrei raggiunto gli obiettivi che mi ripromettevo di raggiungere, e comunque avrei ingannato, illuso troppa gente”.
Ad Alberto Melloni, nel 1994, aveva già confidato: “ Io stavo dentro ma a certe condizioni. Avevo ambizioni per il partito, non per me, ma per il partito e il paese, sì. Invece è succeduta un’età in cui non c’erano più ambizioni se non per per sé,  per le proprie affermazioni personali.…”.
Mariano Rumor, in un’intervista al settimanale “La Discussione”, aggiunse invece che Dossetti,  sin dai primi momenti dell’impegno romano, gli confidò di aver deciso di farsi prete già durante la Resistenza, quando sull’appennino reggiano, nella chiesetta di Costabona (Villa Minozzo), fu costretto a forzare la serratura del  tabernacolo per poter assumere tutte le ostie consacrate  conservate nella pisside, nel timore di una possibile profanazione da parte delle truppe naziste in fase di avanzamento a tappeto in un’operazione militare di rappresaglia: “In quel momento lo decisi” .
Come si vede sono tante e profonde le ragioni, avvalorate nel tempo dall’interessato, che sono alla base di questo suo ritiro dalla politica. Ma, seppur diverse, non sono in contraddizione.
Mi sembra di potere affermare che Dossetti ha sempre ritenuta temporanea, cioè destinata a finire, la sua esperienza politica, ma la costatazione definitiva che il perseguimento dei  suoi obiettivi politici avrebbe richiesto un impegno molto lungo e compromessi troppo esosi, l’ha indotto a finirla in quel tempo, scelto da lui.
Conclusivamente vorrei dire che Dossetti è sempre stato un personaggio scomodo. Di lui per lungo tempo si è faticato a parlare sia in sede politica che ecclesiale. Fondamentalmente perché si era sempre posto come segno di contraddizione rispetto alla realtà, alla realtà dell’uso del potere in particolare, sia da parte della politica che da parte della Chiesa. Il tema del potere era centrale nella sua riflessione e nella sua esperienza. Dominare il potere (terreno privilegiato da Satana) con l’intelligenza e la fortezza, per non esserne dominati, è stata una delle sfide più importanti della sua vita.
Di lui poi colpiva, e intimidiva, la straordinaria intelligenza storica, la capacità di vedere e interpretare i processi in corso, grazie a una precisa attitudine a ordinare e nello stesso tempo relativizzare le decisioni. Per comprenderne il senso può essere utile ricordare quanto disse nel 1957 a un gruppo di ragazzi della Giac di Bologna “Non c’è possibilità di crescita della storia, nel senso in cui lo intende lo storicismo, perché non è possibile. Una volta che Cristo è venuto, è morto, è risorto ed è asceso, non si può più verificare qualche cosa che aggiunga qualche cosa a questo. Perché l’unico fatto veramente decisivo e riassuntivo è già verificato…”.
Ecco, con questa bussola, gli riusciva particolarmente facile  valutare le vicende del suo tempo con giudizi sempre definiti con nettezza.
Le vicende internazionali in particolare, che ha continuato a osservare anche dopo la scelta monastica, sempre preso come era dall’assillo della pace nel mondo, diventano così il terreno in cui eserciterà sino alla fine dei suoi giorni la sua testimonianza profetica di cristiano, di politico e da ultimo di monaco.
Forse questa intelligenza della storia e la fiducia nella Costituzione come garanzia e ancoraggio insostituibile per la nostra democrazia, rappresentano ancora oggi l’eredità più preziosa di un’esperienza politica per tante ragioni divenuta comprensibilmente inattuale, seppur sempre intrigante.

in allegato 


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