Padre FILIBERTO GUALA

- cenni biografici
- lettera di Padre Guala
- Padre Guala ricorda Don Orione



CENNI BIOGRAFICI
Filiberto Guala (Montanaro (TO), 18 dicembre 1907 - Albano Laziale, (RM) 24 dicembre 2000) è stato un dirigente industriale ed in seguito un sacerdote, noto principalmente per avere ricoperto la carica di Amministratore Delegato della RAI dal 1954 al 1956.

Fin dalla giovane età fu un cattolico militante. Andava a messa tutte le mattine, e di lui si diceva che all'età di 18 anni avesse fatto voto di castità e di povertà, per tutta la vita devolse ai poveri parte del proprio stipendio.
Fu molto influenzato dalla vita del beato Piergiorgio Frassati, e dopo la sua morte formò a Torino un gruppo di amici provenienti da diverse regioni italiane, militanti nella FUCI che volevano vivere insieme la spiritualità di Piergiorgio. Era un gruppo di amici fraterni, che diverranno poi personaggi noti, quali Roberto Einaudi, Domenico Garelli, Carlo Carretto, Enrico di Rovasenda e altri.
Ebbe come consigliere spirituale Giovanni Battista Montini, in seguito divenuto Arcivescovo di Milano e quindi Papa con il nome di Paolo VI. A lui confidò la sua intenzione di abbracciare la vita sacerdotale, ma Montini lo dissuase dicendogli: "Lei deve essere un buon ingegnere e non un prete. La Chiesa ha bisogno di laici che abbiano delle posizioni determinanti nella struttura del paese".
Laureato in ingegneria al Politecnico di Torino nel 1929, ottenne un impiego alla fabbrica di cuscinetti a sfere RIV di Torino (divenuta in seguito RIV-SKF). Dopo qualche tempo, fu scelto come direttore dei lavori per il raddoppio della funivia che trasporta carbone dal porto di Savona al Piemonte. In questo periodo entra a far parte di un gruppo di preghiera che lo mise in stretta relazione con l’avvocato Franco Costa, in seguito divenuto sacerdote e, ottenuto il titolo di Monsignore, successore di Montini alla presidenza della FUCI. Costa lo coinvolse nella Stella Maris un'associazione che forniva assistenza religiosa ai marittimi di passaggio.
Fu tramite l'avv. Costa che Guala entrò in contatto nel 1938 con Don Orione, fondatore della Piccola Opera della DIvina Provvidenza. L'incontro con questo sacerdote, proclamato Santo nel 2004, segnerà profondamente la vita di Guala. A proposito della disponibilità di Guala nell'affrontare qualunque incarico, un'indicazione si può trarre da un colloquio di don Flavio Peloso con lui, apparso sui "Messaggi di don Orione" (N.103, 2001). Don Orione disse a Guala: «Tu farai grandi cose nella vita. Io ti chiedo un impegno: quando ti diranno che devi fare una cosa molto difficile, e tutti dicono di non farcela, e ti dicono che non c'è nessun altro che la possa fare, in coscienza tu la devi fare»
L'impegno politico e religioso nella vita civile
Nel 1936 Guala fu chiamato dal senatore Alfredo Frassati (ex proprietario ed ex direttore del quotidiano "La Stampa") ai vertici della Società Acque Potabili del capoluogo piemontese, che diresse fino al 1941.
Oltre all'amicizia con Don Orione, noto per le iniziative di carità e l'ammirazione per Pier Giorgio Frassati, attivo nelle organizzazioni giovanili cattoliche, Guala era in sodalizio con un gruppo di intellettuali aperti alla politica, tra i quali Dossetti, Lazzati e La Pira, che occupavano uno spazio minoritario nella composita galassia democristiana, e che con Fanfani fondarono nel 1946 l'associazione Civitas Humana.
Nel 1949, in qualità di Ministro del Lavoro, Fanfani affidò a Guala l'incarico di direttore tecnico del piano di costruzioni INA-Casa (noto anche come "Piano Fanfani") per la costruzione di abitazioni destinate ai lavoratori. La sua competenza, onestà e abilità manageriale nel disimpegnare questo difficile compito attirarono su di lui l’attenzione dei politici quando, nel 1954, si trattava di scegliere l’Amministratore delegato della RAI. Lo stesso Guala, nel citato colloquio, afferma in proposito: «Ad un certo momento, mi chiesero di assumere la direzione della RAI, un’impresa nuova e ardua, dove non sapevano chi mettere. Decisero di chiedere a me. L’onorevole Scelba mi chiamò, mi parlò un poco e io gli dissi: Guardi, lei lo sa, io penso di non essere preparato per fare questo… Ed egli replicò: Non c’è nessun altro di area cattolica che possiamo mettere! A queste parole, io mi sono rivisto, lì davanti, Don Orione e le sue parole. E gli ho detto “si”.»
Il "talebano" della RAI
Le trasmissioni televisive regolari in Italia ebbero inizio il 3 gennaio 1954, ed il 4 giugno di quello stesso anno Guala viene nominato amministratore delegato della RAI con pieni poteri, affiancato da Giovan Battista Vicentini, ex dirigente della Cereria vaticana ed ex presidente dell'Azione Cattolica, in qualità di direttore generale.
Guala gestì la RAI in modo rigido e autoritario, legandone per lo più i contenuti a esigenze di moralizzazione cattolica, sovente coadiuvato in questo scopo da funzionari e assistenti spesso più realisti del re, in maniera non molto dissimile da quella in cui i "Talebani" imposero in Afghanistan la loro idea di stato rigidamente teocratico. Egli impose in azienda, per tale obiettivo, anche un severo codice d’autodisciplina, rivolto ad autori, giornalisti e agli stessi uomini di spettacolo, compilato dai "Centri Cattolici Cinematografici" sulla falsariga dell'analogo codice Hays per il cinema in America.
Nel codice si leggeva, tra l'altro: "Non è consentita la rappresentazione di scene e vicende che possano turbare la pace sociale o l’ordine pubblico. L’incitamento all’odio di classe e la sua esaltazione sono proibiti. Sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia, disordini pubblici possono essere rappresentati con somma cautela e sempre in modo che ne risalti ben chiara la condanna. Dovranno essere escluse le opere di qualsiasi genere che portino discredito o insidia all’istituto della famiglia, risultino truci o ripugnanti, irridano alla legge, siano contrarie al sentimento nazionale. Quanto alla famiglia, deve aversi particolare riguardo per la santità del vincolo matrimoniale e per il rispetto delle istituzioni, e pertanto: il divorzio può essere rappresentato solo quando la trama lo renda indispensabile e l’azione si svolga ove questo sia permesso dalle leggi; le vicende che derivano dall’adulterio e con esso s’intrecciano non devono indurre in antipatia il vincolo matrimoniale; attenta cura deve essere posta nella rappresentazione dei fatti o episodi in cui appaiono figli illegittimi".
Era stato inoltre diffuso al personale incaricato della programmazione radiofonica e televisiva un elenco di parole proibite e dunque impronunciabili in televisione: fra le quali "membro" (non si poteva neanche dire "membro del Parlamento"), "seno" (neppure in senso figurato, come "in seno all'assemblea"), "parto", "vizio", "verginità" e "alcova". Le parole "gravidanza" e "suicidio" dovevano essere rispettivamente sostituite da "lieto evento" e "insano gesto", ed inoltre non era consentito usare termini quali "cancro" o "tumore", ai quali doveva essere sempre sostituita l'edpressione "male incurabile". Alcune di queste norme rimasero in vigore fino agli anni '70.
Inoltre, durante la gestione di Guala, non mancarono casi si personaggi televisivi, anche famosi, che vennero letteralmente "banditi" dal piccolo schermo a causa della loro poca disponibilità ad attenersi alle rigide norme sopra citate o, nel caso di personaggi femminili, semplicemente a causa della loro avvenenza. Fu Guala a cacciare via Alba Arnova, moglie del direttore d'orchestra Gianni Ferrio e famosa soubrette del "Teatro Colon" di Buenos Aires, rea di aver danzato ne "La piazzetta" indossando una calzamaglia chiara che poteva "evocare la nudità". Per lo stesso motivo ai cameramen che effettuavano le riprese del programma televisivo "Casa Cugat", presentato dall'allora famoso musicista e direttore d'orchestra cubano Xavier Cugat, venne imposto di inquadrare l'attrice e cantante Abbe Lane, allora moglie di Cugat, solo in primissimo piano allo scopo di occultare quanto più possibile le sue procaci forme ai telespettatori.
Arrivano i "corsari"
Nonostante la ristrettezza di vedute in materia di espressione del mezzo radiotelevisivo, fu proprio Guala, incaricato di gestire il trasferimento a Roma delle strutture di produzione della RAI, fino ad allora collocate a Torino, sede storica dell'EIAR, e a Milano, ad avere l'intuizione di introdurre "energie nuove" tra il personale dell'Ente radiotelevisivo, Venne così bandito un concorso pubblico, al quale parteciparono circa 30.000 concorrenti, per l'assunzione di 150 giovani laureati, tra i cui vincitori vi furono personaggi in seguito divenuti molto noti in vari campi, quali Furio Colombo, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Mario Carpitella, Enrico Vaime, Fabiano Fabiani, Piero Angela, Adriano De Zan, Emanuele Milano, Fabiano Fabiani, Angelo Guglielmi , Folco Portinari, Gianfranco Bettetini eccetera. Questi giovani intellettuali, in seguito etichettati con lo scherzoso soprannome di "corsari", in quanto destinati a seguire, dopo la selezione del concorso, un corso di formazione diretto da Pier Emilio Gennarini, avrebbero dovuto, nelle intenzioni di Guala, "svecchiare" il management della RAI, ancora troppo legato a personalità provenienti dall'EIAR, e a tutt'oggi sono considerati i veri costruttori della centralità della Rai nel sistema culturale italiano.
Tra i vincitori del concorso vi era anche lo scrittore Andrea Camilleri, che non venne però assunto perché ritenuto "troppo comunista" dallo stesso Guala. Camilleri si prenderà in seguito una rivincita morale quando, qualche tempo dopo, Bernabei gli chiederà di produrre il ciclo televisivo dedicato al teatro di Eduardo.
La "congiura dei mutandoni"
La scarsa propensione di Guala ad accettare supinamente direttive e raccomandazioni da parte dei suoi "padrini" politici, la sua eccessiva rigorosità ed intransigenza, la sua ristrettezza di vedute e soprattutto la sua opposizione all'introduzione della pubblicità televisiva fecero calare rapidamente la sua popolarità in azienda. Inoltre, nonostante le sue indiscutibili capacità manageriali, egli non seppe trarre vantaggi per l'azienda da lui diretta quando, essendo stati in precedenza acquisiti dalla RAI vasti appezzamenti di terreno situati ai margini del quartiere Prati di Roma, alle pendici di Monte Mario, su parte dei quali verrà in seguito edificato il Centro di produzione RAI di via Teulada, Guala dette disposizione di vendere parte di quei terreni, che di lì a pochi anni avrebbero moltiplicato più volte il loro valore grazie all'incipiente "boom" edilizio, proprio per evitare "indebite speculazioni immobiliari" che secondo lui non si confacevano all'amministrazione di un ente pubblico.
L'arrivo in televisione spettacoli di varietà con delle scenette di satira che dileggiavano, peraltro in maniera velata e alquanto bonaria, personalità della vita politica ritenute allora "intoccabili", come ad esempio il ministro dell'Interno Scelba, alienarono ben presto le residue simpatie degli esponenti politici che in precedenza avevano appoggiato la nomina di Guala al vertice dell'Ente radiotelevisivo di Stato.
Venne quindi presa in alto loco la decisione di costringere Guala alle dimissioni, e ciò avvenne con la complicità di alcuni funzionari della RAI, scontenti per il trasferimento da Torino a Roma di quasi tutte le attività di produzione ed ideazione dei programmi, mediante una subdola macchinazione in seguito nota come "La congiura dei mutandoni".
Grazie ai contatti tra Piazza del Gesù e il Vaticano, si viene a sapere che un certo sabato sera il Papa avrebbe guardato la televisione in compagnia dei suoi nipoti. Si presentò allora negli studi di via Teulada, poco prima dell'inizio dello spettacolo che andava in onda in diretta, un funzionario che ordinò alle ballerine di indossare delle calzamaglie di colore chiaro, in modo da farle apparire praticamente a gambe nude grazie alla scarsa definizione delle telecamere in bianco e nero dell'epoca. Apriti cielo! il Pontefice scandalizzato spense la TV e si ritirò in preghiera, e Il lunedì successivo sull'"Osservatore Romano" uscì un corsivo assai critico contro il governo nel quale si sosteneva che le coreografie del varietà violavano i Patti Lateranensi. Guala raccomandò che nelle puntate successive le ballerine si rimettessero le sottane. Ma il sabato dopo un altro funzionario arrivò a via Teulada e diede disposizione alle ballerine di indossare mutandoni chiusi fino alle caviglie. L’indomani tutta la stampa laica sparò contro la RAI che prendeva ordini dal Vaticano. Vistosi messo alla gogna come l'unico responsabile di queste polemiche, e contemporaneamente "scaricato" dai suoi referenti politici, Guala rassegnò le dimissioni il 28 giugno del 1956.
Il destino manageriale di Guala non finisce con le sue dimissioni dalla RAI. Seguì nello stesso anno l'organizzazione dell'Esposizione "Italia '61" a Torino, e ritornò all'INA-Casa per un breve periodo.

Guala aveva pensato spesso di prendere i voti sacerdotali ed intraprendere la missione religiosa, ma le sue varie vicissitudini gli avevano sempre imposto di rimandare questa scelta. Ne aveva a suo tempo parlato anche con Don Orione, il quale gli aveva detto che vedeva in lui un futuro sacerdote.
Nel 1960, a 53 anni di età, decise di farsi frate trappista, entrando nel convento delle Frattocchie l'11 novembre di quell'anno. Dopo il noviziato divenne trappista nel 1962, e nel 1967 fu ordinato sacerdote.
L'ultima iniziativa di un certo rilievo a cui Guala, ora divenuto frate, venne chiamato dal suo vecchio amico Franco Costa, nel frattempo arrivato al titolo di monsignore, fu la ristrutturazione del monastero della "Madonna della Fiducia" di San Biagio di Morozzo (Cn), situato nei pressi di Mondovì. In quel luogo Guala arrivò nel 1972 e visse da solo come un eremita fino al 1984 quando, giunto all'età di 77 anni, fu costretto a fare ritorno alle Frattocchie a causa di problemi di salute. Durante quel periodo il monastero divenne meta di molti gruppi giovanili, ma anche di industriali, manager e finanzieri di primissimo piano che si recavano da Guala per un consiglio, una parola di conforto, un aiuto spirituale.
Il 27 novembre del 2000 la città di Torino gli conferì la cittadinanza onoraria. Un mese dopo, all'età di 93 anni, cessava di vivere.


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LETTERA DI PADRE GUALA

Caro amico,
voglio farti sapere che sono in un momento che potrebbe dare una svolta alla mia attività di. . . vecchio novantenne. Il Signore sta cambiando il modello delle persone che vengono a confidarsi. Aumenta di giorno in giorno il numero di coloro che vedo per la prima volta: si aprono sul mondo sconvolgente dei loro guai e mi fanno intuire che forse non riescono a capire in profondità la "miseria"che ciascuno porta come conseguenza della propria storia personale. Ecco la svolta. . . Mi rendo conto che c'e'più miseria di quella che conoscevo e quindi mi sento chiamato
1. a dedicare più tempo a questi "miseri",
2. a mobilitare i miei amici, come te, a sostenere questo "mondo" con la loro preghiera.
La liturgia ci offre questa invocazione: "Santa Maria succurre miseris". Ti propongo di inserire nella tua giornata due momenti, una volta al mattino e una volta al pomeriggio, per recitare questa terna:
“Santa maria succurre miseris”
una Ave Maria
l’invocazione “Il Signore è grande e misericordioso
Questa ripetizione, due volte al giorno, è un modo di sentirci uniti nella nostra amicizia. Il Signore ce l'ha donata come mezzo per essere Chiesa e fare Chiesa: pensare agli altri e in particolare a coloro, specialmente sacerdoti e religiosi, che debbono sopportare il peso della loro solitudine. Grazie di questo aiuto!
Ogni confessione è sempre un avvenimento e mi rendo conto che, anche quando non capirò più niente, mi resterà ancora questo ritornello che sempre vado ripetendo come conclusione ad ogni penitente: "Il Signore è grande e misericordioso".
Filiberto


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FILIBERTO GUALA RICORDA DON ORIONE

Moltissimo devo a Don Orione. Lo conobbi che era nel pieno del suo vigore e della sua maturità. Sessantasette anni. Il suo secondo soggiorno nel Sud America, la sua prestigiosa attività alla ricerca di anime da portare a Gesù Cristo – missionario, predicatore, iniziatore di opere nuove in quel continente – aveva accresciuto anche da noi la fama di questo prete, già ben noto per lo sviluppo delle sue opere in tante regioni d’Italia. Non conoscevo nessuna delle sue Case, non sapevo della stima che gli aveva manifestato il Legato Pontificio Pacelli sul «Conte Grande». Sapevo che tanti cercavano di incontrarlo per averne luce, conforto, consiglio. E che era disponibile per tutti, con pazienza, con attenzione: come se non avesse altro impegno più urgente che quello di entrare veramente in comunione col suo interlocutore, di incontrarne l’autentico essere umano per riversare nella vita di lui il proprio cuore ripieno di Dio.
A questo modo accolse anche me.

La mia prima impressione fu la pacata tenerezza del suo sguardo. Poi colsi nei suoi grandi occhi neri che mi guardavano dentro, come un riflesso di Dio, proprio come ho letto, più tardi, nella descrizione dei Padri del deserto!
«Basta guardarlo, per vedere ch’egli vive in Dio e Dio in lui. Nel suo portamento, nel suo sguardo, nel suo sorriso, nella sua conversazione, in tutta la sua persona si sente l’irradiarsi della presenza interiore di Dio». Così scrive il Maestro Generale dei Domenicani Gillet. E io aggiungerei: «nei suoi silenzi…», perché mi prese alla sua scuola, ricevendomi di frequente, facendomi pregare con lui e sostare vicino a lui.
Voleva farmi sentire il suo «cuore a cuore» col Cristo, comunicarmi la sua devozione alla Madonna mediatrice di tutte le grazie, trasmettermi la sua visione dell’apostolato cristiano. Penso che abbia voluto fondamentalmente farmi intuire la responsabilità che egli sentiva per guidare la sua opera, anche al di là delle varie Case della Congregazione.
Voleva costruire una fraternità vera tra «i suoi» - membri della Congregazione e amici - fondata su un’unità di visione della vita. Per questo si preoccupava della formazione dell’«uomo completo», anche nei suoi aspetti culturali (Dante e Manzoni gli erano tanto cari) e in quelli sociali (sensibilità accesa alla elevazione dei poveri e degli umili). Credeva nell’universalità della redenzione e sentiva l’ansia dei fratelli separati e lontani. Per avvicinare questi ultimi è dovere di ogni cristiano di tentare anzitutto un accostamento umano – nel campo del lavoro, come dell’apostolato – a più largo raggio possibile, in ogni occasione, senza limitazioni né esclusioni, sempre nel solco della carità.

Desiderava che lo si sapesse disponibile per intervenire là dove nessun altro provvede – essere come uno straccio nelle mani della Provvidenza: uno straccio non ha forma propria, ma deve assumere facilmente quella che gli dà chi lo usa. Pronto a intervenire con audacia, anche con rischio. (È su questa linea che la Congregazione, dopo la sua morte, si prestò tanto efficacemente per l'Apostolato del Mare, l'assistenza religiosa nelle fabbriche, le Case dell'Operaio, i Mutilatini. . .).
Naturalmente mi fece anche visitare le sue Case, create nello spirito di immediata aderenza ai bisogni delle varie categorie: dai «buoni figli» alle signore decadute. Ma mi apparvero più che altro come attuazioni particolari della sua ansia di fraternità universale.
Ricordo che dopo un corso di esercizi tenuto da lui al Boschetto (c’erano Pino Zambarbieri e Ignazio Terzi, studenti universitari) ci guidò nella visita di tutte le sue «Case» di Genova. A Paverano, paradossalmente mi confidò: «Questa casa finirà col giovare maggiormente ai cosiddetti benefattori, più che a queste poche centinaia di ricoverate. I ricchi hanno il dovere di fare la carità e noi li aiutiamo a soddisfare questo loro “bisogno”. Per di più, alcuni di essi vengono qui a fare una visita, e vi incontrano il Signore».

Mi fece conoscere da vicino i suoi chierici «facchini della Provvidenza»: dimessi nel vestire, scalcagnati nelle calzature e con certi cappellucci che li rendevano immediatamente riconoscibili appena li incontravo in ogni città. Affrontava i problemi della loro formazione con senso realistico, facendoli lavorare manualmente, chiedendo loro l’esercizio di una dura povertà. Più di una volta mi ha detto che intenzionalmente, a un certo momento voleva mettere ciascuno alla prova, in modo che se non si sentiva di abbracciare totalmente il suo ideale, se ne andasse.

Avevo incontrato, dunque, chi doveva orientare la mia vita. Quante volte ho pensato questo – e benedico il Signore – quando la notte, contemplando il cielo stellato, il mio sguardo è come attratto dalla costellazione di Orione!
Un sacerdote moderno, oggi si può dire a giusto titolo: con apertura conciliare. Voleva «camminare alla testa dei tempi…per poter tirare e portare i popoli e la gioventù alla Chiesa e a Cristo».

Don Orione aveva una capacità di ascolto eccezionale: «aveva consegnato il proprio io al prossimo», direbbe Boros. «Il primo aiuto è un tacito, intimo sorriso sulla singolarità dell’esistenza umana, sorriso che può dare solo chi dispone di un’interna tranquillità e distensione». Sapeva comprendere il lamento di ogni uomo nella peculiarità della sua situazione umana concreta.
Attraverso l’esperienza aveva raggiunto una tal finezza di sentire, che il suo sguardo penetrante arrivava alla profondità dei cuori; e spesso riusciva a scoprire ciò che «ancora» un uomo non è, ma deve divenire nel piano di Dio. Risvegliava così nel suo interlocutore possibilità e speranze che in lui già riposavano, perché Dio è dentro ciascun uomo: lo ama, è presente in lui, vive in lui, abita in lui, lo chiama, lo salva, gli offre una luce. Don Orione aiutava le anime a prender coscienza di questa realtà, perché aveva fede che «nel più misero degli uomini brilla l'immagine di Dio».

Ho voluto soffermarmi su questo avvicinamento umano, sul piano psicologico, e sulla fiducia nell’uomo, perché sono temi che nel nostro secolo hanno trovato un rilievo crescente, diventando note essenziali della azione della Chiesa nel mondo. Tanto che Paolo VI li ha presentati come atteggiamenti peculiari della Chiesa di oggi, in quella sintesi insuperabile che è il discorso di chiusura del Concilio, pronunciato il 7 dicembre 1965: «La Chiesa del Concilio si è assai occupata…dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’ “uomo vivo”, l’uomo tutto occupato di sé…, rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, l’uomo tragico dei suoi propri drammi…l’ “uomo com’è”, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa, il “filius accrescens” (Gen. 49, 22); e l’ “uomo sacro” per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore.
Ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, e il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità.

Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben presto a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice…tutto rivolto in un’unica direzione: “servire l’uomo”. L’uomo in ogni condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. Sempre in atteggiamento di servizio si presenta Don Orione con la sua fiducia nella Provvidenza e coi suoi strumenti umani di cui certamente era superdotato, non solo nel campo psicologico, ma anche in quello organizzativo: era un uomo di genio e uno dei più «forti» che abbia mai incontrato. Tuttavia, egli non fa tanto leva su queste doti, ma piuttosto sulla fede. Rinuncia spesso ai mezzi umani, per poggiarsi sulla preghiera, sull’immolazione, le sue vere vie per arrivare alle anime.

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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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